Chiesa di Sant’Eligio

Sant Eligio Sant’Eligio Maggiore, prima fabbrica angioina a Napoli ed uno dei più insigni modelli di architettura francese, o francesizzante, dell’Italia meridionale. Di fronte all’abside è una colonna sormontata da una croce marmorea gotica sulle cui facce sono scolpiti il Crocifisso e Sant’Eligio. La fondazione risale al 1270, quando Carlo I d’Angiò concesse a tre suoi familiari di corte e ministri di casa un terreno per costruirvi un ospedale e una chiesa. La scelta del luogo forse va letta anche come gesto di pa-cificazione politica, a due anni dall’esecuzione di Corradino di Svevia e a due passi da quella piazza Mercato che ne aveva visto il tragico epilogo. Benché tutta l’area fosse urbanisticamente depressa già da allora, una notevole importanza veniva dalla prossimità con la Porta del Carmine, una delle principali vie di uscita dalla città verso l’entroterra. Secondo una tradizione la scelta del santo titolare fu effettuata a sorte fra la terna, squisitamente transalpina, di Sant’Eligio, San Dionigi e San Martino. Tutto il complesso ebbe notevole considerazione non solo al tempo degli Angioini e dei Durazzeschi, ma anche successivamente, nei periodi aragonese e vicereale.
La chiesa merita assai più che uno sguardo distratto, soprattutto ora che complessi restauri l’hanno restituita a forme il più possibile vicine a quelle originarie. In realtà, nel corso dei secoli e soprattutto alla fine del cinquecento, l’edificio aveva subito modifiche e si era progressivamente imbastardito sotto il profilo architettonico, anche a causa dell’inglobamento esterno entro costruzioni di scarso valore (già dagli inizi del XVI secolo la facciata principale, forse mai realizzata in forme definitive ed organiche, era sparita dietro una fabbrica di uso civile). Fra il 1835 e il ’45 infine, a causa soprattutto del marcato degrado delle strutture, l’interno fu pressoché rifatto e ricoperto di stucchi. Ricordiamo a questo proposito un emblematico passo di Gennaro Aspreno Galante del 1872: “la chiesa che fino al 1836 mo- strava tutte le tracce dell’epoca angioina, ridotta quasi a mina fu in quell’anno restaurata dall’architetto Grazio Angelini, e se ne smarrì non pure la primiera forma, ma gran parte di preziose memorie, solito discapito dei nostri monumenti, sì che è più desiderabile uno vecchiume antico che un restauro moderno”. A trarci d’imbarazzo fu, il 4 marzo del 1943, un ignaro bombardamento alleato che, eliminò non solo le superfetazioni ottocentesche ma più o meno tutto quanto era possibile eliminare. Dopo una simile rovina la chiesa tuttavia è splendidamente rinata e riaperta da più di un quindicennio, ci offre la possibilità di uno studio della genesi delle sue stutture.
All’esterno si ammirano le forme gotiche ripristinate ex-novo, soprattutto il lato destro ed la bellissima abside poligonale che volge verso piazza Mercato e che richiama analoghe soluzioni in Sant’Agrippino a Forcella e in Donnaregina Vecchia. Di originario rimangono l’interessante torre campanaria e l’attiguo Arco dell’orologio, databili ai primi decenni del Quattrocento in periodo durazzesco. L’unico ingresso alla chiesa è quello laterale destro, subito dopo l’Arco, con lo splendido portale strombato della fine del Duecento, unico a Napoli, opera di maestranze francesi e tipico esempio di una cultura transalpina non ancora ibridata coi linguaggi locali, ma evidenziata dalle gole degradanti a profondi sottoquadri, dai vivaci giochi chiaroscurali, dagli elementi zoomorfi e fitomorfi scolpiti in forte aggetto, secondo le migliori tradizioni delle cattedrali gotiche d’Oltralpe. L’interno è a tre navate poi accresciute di una quarta a sinistra alla fine del Cinquecento, transetto ed abside poligonale. Si notano in esso le tracce di interessanti trasformazioni evidentemente avvenute già in corso d’opera. Lungo i due lati della navata centrale corrono tre grandi arconi su pilastri, al di sopra dei quali spicca una partitura più serrata di archi più stretti, alti e a sesto nettamente acuto; la copertura della navata centrale e del transetto è a capriate lignee, mentre quella delle navate laterali e dell’abside è a volte costolonate. Tutte le murature sono in tufo giallo e le membrature in piperno grigio, secondo una tipica bicromia in uso nelle fabbriche religiose napoletane dal Due al Quattrocento. Come abbiamo già anticipato, una quarta navata a sinistra, già facente parte dell’Ospedale trecentesco e già interessata da interventi di età durazzesca, fu inglobata verso la fine del 500. In questa quarta navatella si conservano, benché rovinatissimi, frammenti di affreschi del XIV secolo, di differenti mani. Il Redentore Benedicente, i clipei con angeli nel terzo e quarto sottarco e i Profeti nelle vele della terza campata spettano al cosiddetto “Maestro della Cappella Leonessa” – attivo anche a San Pietro a Majella – e sono databili tra il sesto ed il settimo decennio; dello stesso periodo ma di un differente artista più strettamente legato ai modelli lasciati a Napoli da Giotto, sono invece il San Nicola e le Storie di San Nicola della quinta campata e l’Annunciazione della quarta campata. Nella chiesa, in origine completamente affrescata, restano oggi pochissimi frammenti di decorazione pittorica, tutti in condizioni alquanto infelici. Nei finestroni del transetto sinistro ed in un sottarco a destra dell’altare maggiore abbiamo lacerti decorativi coevi a quelli ora descritti nella navatella sinistra; in basso su di un pilastro all’inizio della navata a sinistra vi è un frammento trecentesco di un Santo Vescovo; infine sulla parete soprastante l’ingresso restano brandelli di una Crocifissione datata 1478. Sulla parete all’inizio della navata centrale, dove un tempo doveva aprirsi l’ingresso principale, troviamo la bellissima, monumentale incorniciatura marmorea, datata 1509. Questa importante opera plastica, andò distrutta e parzialmente dispersa già nel corso del Settecento; solo durante i lavori di restauro successivi alle distruzioni della guerra furono trovate diverse teste di personaggi e pochi ornati, ormai privi del colore originario (sono esposte ora al Museo Civico di Castel Nuovo). Del corredo plastico della chiesa ricordiamo ancora due lastre marmoree trecentesche, in origine facenti parte di un sepolcro della famiglia Boletto, ed una stupenda Madonna lignea di un ignoto scultore nordico, forse francese, della metà del 400 (oggi custodita al Museo di Capodimonte); il resto è andato perduto.

Curiosità: (Alcune tradizioni Napoletane si perpetuano). S. Eligio era invocato dal popolo per la guarigione dei cavalli, i quali venivano recati davanti alla chiesa per la benedizione. Se si otteneva la guarigione, i ferri del cavallo infermo erano inchiodati sul portale come oggetti votivi. Tale rituale soppresso nel periodo spagnolo, era ereditato dall’antichità, allorquando i cavalli infermi giravano intorno ad un idolo rappresentato da un cavallo di bronzo (sito nel luogo dove attualmente è posto l’obelisco di S. Gennaro) per invocare la guarigione. Questo rito pagano fu soppresso dal re svevo “Corrado” (padre di Corradino) che fece fondere il cavallo di bronzo ad eccezione della testa, la quale fu in possesso della famiglia dei Medici, poi donata alla famiglia Carafa, in seguito conservata nel museo borbonico ed ora collocata nella metropolitana di Piazza Cavour. Il rituale è ancora vigente, in quanto il giorno 17 gennaio di ogni anno, i cavalli vengono benedetti dal parroco della chiesa di S. Antonio Abate.

L’orologio del S. Eligio è decorato con due testine di marmo, una maschile e barbuta ed una femminile. Si narra da secoli di una vicenda che ha il sapore della leggenda. Intorno all’anno 1500 un nobile napoletano, tale Caracciolo teneva prigioniero il padre di una fanciulla che intendeva insidiare, promettendo clemenza al soggiacere della fanciulla alle sue brame. Il nobile cavaliere raggiunse lo scopo, ma tale deplorevole azione fu rivelata alla reggente (Isabella figlia di Alfonso II di Aragona) che costrinse il cavaliere a sposare la fanciulla prima di giustiziarlo in Piazza Mercato.

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